Mi hanno detto che non posso volare. Mi sono fermato,
incredulo. Sentivo le gambe libere librarsi nel vuoto, ma forse era solo
immaginazione. Quando ho scoperto che non avrei mai potuto scorgere il mondo
dall’alto mi sono fermato a guardare il mare. Il suo riflesso che racchiude il
cielo, le nuvole, i miei occhi.
È come se lì dentro, in uno spazio confinato senza recinti,
ci fosse tutta la mia esistenza. La mia esperienza sensoriale, quella
primordiale fatta di tatto e vista. Ti specchi e pensi a quando credevi
fermamente che l’infinto fosse il vagare della mente che fantastica mondi inesplorati
e moti di perpetua rinascita sotto nuove vesti, nuove forme in divenire, senza
angoli, solo fisionomie smussate, morbide come un morso, rassicuranti come una
foglia che cade lenta ai tuoi piedi. Oggi, che il verde dell’iride diventa un’ombra
mossa da onde soffici, capisci che tutto è lì. Una finzione proiettata sul
gigante schermo increspato.
Quando perdi contatto con quello che vorresti essere e ti
limiti ad essere chi potresti diventare senti che il mondo si scolla, come un
libro perdi le pagine e non sai più rimetterle insieme. Tutto quello che
facevi, camminare un passo alla volta, diventa una sfida. Gattoni, cadi. A
volte hai una tale paura che ti blocchi, ginocchia in bocca.
Quando chi sognavi di essere incontra quella sagoma che gli
altri pensano che tu possa essere, tutto è come quella volta che hai capito che
non potevi volare. Scopri il mare in un bicchiere, i tuoi occhi riflessi lì
dentro. Uno sguardo prima infinito diventa mutilo, non va oltre il confine
razionale. Chi ti ha detto che non puoi volare ti ha detto che non puoi credere
nella forza del pensiero. Tu hai bevuto da quel bicchiere, hai risucchiato i
tuoi occhi che sognavano, e hai creduto a loro. Eppure un giorno hai volato, con
le gambe libere che si libravano nell’aria.